Intervista a CARLO OLMO Direttore del “Giornale dell’Architettura”

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      Mario Mangone
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      Prof. CARLO OLMO Direttore del “Giornale dell’Architettura”
      Venerdì 18 Luglio 2008-Torino

      L’esperienza di uno studioso, come il sottoscritto, che nasce come storico della città e poi attraversa la politica e le decisioni in maniera singolare, prima come responsabile delle politiche urbane e la qualità urbana della città e poi fondatore dell’Urban Center Metropolitano ed il Giornale dell’Architettura, offre un punto di vista molto particolare rispetto alle domande che mi avete fatto.

      Torino ha conosciuto dal 1995 in poi, in questi ultimi 13 anni, un cambiamento che è legato in primo luogo all’applicazione di un Piano Regolatore, che ad oggi è saturato; cioè è un raro caso in cui le previsioni in 13 anni sono state compiute, da grandi interventi infrastrutturali. La copertura del “passante” e ben altra cosa di quella di Milano ed ha una grande crisi economica, che sembrava metterne in discussione la natura fondamentale di città industriale.

      Oggi come oggi, Torino esce da questi tredici anni, ancora con un apparato industriale molto forte; più del 30% dell’occupazione a Torino è operaia. E’ un numero molto alto in Europa, con una struttura industriale riorganizzata e competitiva sul piano internazionale e diversificata, rispetto all’originale, legata alla produzione dell’auto, con sviluppi molto forti, in altri settori come quelli dell’aeronautica o dell’informatica. Quindi con una natura neo-industriale, non post industriale che è una delle caratteristiche di fondo della vita di questa città e anche della composizione sociale di questa città, che certamente è una città che sta diventando città di ceti medi. Per alcuni è un impoverimento come in tutto il mondo, in cui però la presenza di una classe operaia e come quella di tutto il mondo, che ruota intorno alla produzione industriale è ancora molto forte, mentre si sta creando ed è la terza componente, forse la più curiosa, effettivamente una borghesia urbana terziaria, non tanto legata all’amministrazione, quanto alla produzione e alla ricerca .

      Torino in questo momento ha una composizione sociale molto curiosa, perché c’è un terzo legato alla produzione industriale, un terzo che è legato a questo mondo terziario delle produzioni, della ricerca e della formazione dei grandi servizi, intesi come ricerca e solo un terzo che è legato alle attività pubbliche. E’ quindi molto singolare come città italiana e rappresenta un modello che si trova in alcune e poche città europee in questo momento. Questo si vede anche nella struttura fisica della città, se uno è abituato, come me a girare con gli occhi per aria e non con gli occhi per terra, si accorge che ci sono già state delle trasformazioni molto significative, non solo riguardo l’applicazione del piano, per esempio la “Spina” e quando sarà completata, cioè tra due anni, sarà l’asse non solo di attraversamento della città, com’era nell’originale piano del ’46, ma sarà anche sotto il sistema, dove potrà scorrere finalmente questa ferrovia metropolitana, tipo”air-air” francese, che cambierà sostanzialmente la mobilità. Quindi per la scala della città, sarà difficile parlare di Torino. Sarà possibile parlare di area metropolitana in senso lato, questi cambiamenti si riflettono anche su parti della città che stanno cambiando, in senso molto rapido.

      Ci sono parti della città meno reclamizzate e visitate. C’è ne una molto interessante che è la barriera di Milano antica, area della prima industrializzazione torinese 1860-1890, che è in fase di trasformazione da un punto di vista funzionale. Si sono insediate attività terziarie di ricerca legate alla meccanica fine e alle macchine che producono altre macchine, che si sono portati dietro un sistema di residenze e abitazioni di ceti sociali, dagli artisti agli imprenditori, ai professionisti, quest’area che era molto fragile, perché l’architettura di quegli anni vale molto poco, nel giro di 4 o 5 anni sarà irriconoscibile, sarà l’asse da cui penetrerà la linea 2 della metropolitana .

      Questi cambiamenti sono nei punti nevralgici, sono cambiamenti che propongono gli stessi problemi che Torino ha rispetto ad altre città, il rapporto fra gli edifici di grande scala e le centralità urbane, allora anche in questo Torino ha cercato di collocare i pochi edifici di grande scala.

      Forse si costruiranno i famosi grattacieli che danno tanta preoccupazione ad alcune frange della cittadinanza, sui nodi di concentrazione delle reti infrastrutturali. Cioè riprendendo questa idea, che non è certo torinese ed è cara a molte politiche urbane tedesche e francesi, che è la monumentalità, l’edificio alto faccia riferimento a un incrocio di funzioni, con l’aggiunta di tentare nei confronti degli edifici alti, una differenziazione rispetto alla singola funzione, a far si che questi edifici non siano solo di una banca o di una amministrazione, ma che conservino una permeabilità ai piani bassi, per cui questi piani bassi siano di uso pubblico ed una permeabilità anche ad altri piani con funzioni che non siano solo quelle inizialmente pensate. E’ un’ idea un pochino più raffinata della città che ha al centro un nodo fondamentale, che è quello morfologico. Le città si creano se c’è un’autorità o un consenso, o lo stato totalitario, o un consenso democratico. La morfologia della città non è creata dalle architetture o dai piani generali, è creata rammagliando ricostruendo gli isolati, ricostruendo le morfologie delle piazze e delle strade e ridisegnando restituendo alla città la sua funzione di città, cioè luoghi dove gli spazi pubblici siano il cuore della trasformazione. In questo Torino ci sta provando.

      Non è ancora riuscita a realizzare questa prospettiva utopica, in parte c’è riuscita e in parte no. In alcune aree di trasformazione, questo è molto chiaro, in altre è molto più problematico, come anche in mostra ha raccontato nella Spina Tre, che è l’episodio più discusso di tutta la trasformazione urbana. Quanto di queste politiche può essere esportato?
      A Milano, a Napoli, a Bari, o Palermo? Qui il problema centrale è quello del potere di decisione che a Torino è stato accompagnato dalla creazione di una serie di strutture come l’Urban Center Metropolitano, il Piano Strategico e il Piano Strutturale ecc., che sono dei veri luoghi di discussione e dibattito, creazione del consenso ed emergere del dissenso. Sono strumenti non amministrativi, nessuno di questi mette un timbro, ma sono strumenti fondamentali per la creazione del capitale sociale, direbbe un sociologo, che Torino ha saputo mettere in campo al di là degli avvenimenti, un processo molto keynesiano che si sta realizzando a Torino.

      Torino anticipa l’”Auto da Te” di Tremonti, cioè il keynesianesimo, che tiene insieme la città, gli investimenti fatti per il piano regolatore, per il Passante, per le Olimpiadi.
      Ora sul 2011 vi è un lungo ciclo di investimenti pubblici che consente alla città di trasformarsi senza traumi eccessivi, il primo problema di città come Milano, non come Napoli, sia proprio questo: il modello di governo che corrisponde a una diversità della composizione sociale delle città.

      Torino ha avuto due sindaci, che sono venuti dalle università e hanno costruito delle giunte che corrispondevano alla loro dimensione. Ha avuto amministratori che provenivano da strati sociali meno favoriti e che hanno portato avanti politiche in quel senso. Il primo problema da discutere a fondo sia, quanto le altre città abbiano intenzione di seguire questo modello di governo e in quanto le città, in parte Genova ha fatto, di utilizzare grandi avvenimenti per cambiare almeno alcune parti della città, questa è una parte del modello. Io credo che in una città come Napoli che ha patrimoni straordinari e parti straordinarie, al contrario abbia il problema di capire, se è in grado di ragionare sulle morfologie storiche, ma anche su quello delle periferie urbane, perché anche su quelle si può intervenire, ci sono modelli di intervento di risanamento in Belgio, in Francia, per esempio la politica del ridisegno del Gran Ensamble francese è una politica esemplare, quando uno vuole intervenire, per ricostruire urbanità con l’idea che bisogna ricreare centralità e città .

      E’ certo che la macchina amministrativa, e quando parlo di macchina amministrativa parlo dagli assessori ai tecnici comunali a Torino, ha già una tradizione diversa ed è stata in questi ultimi 15 anni riorganizzata non come uno amerebbe che fosse, però è una macchina che funziona, che sull’aspetto di legalità e destinazione degli spazi funziona anche correttamente.
      Non ha la formazione, ma come non ce l’ha nessuna macchina organizzativa in Italia, sulla morfologia e qualità urbana ed è per questo che ha creato prima questa figura, un po’ ridicola, del sottoscritto non architetto, come tra il resto architetto della città e poi io l’ ho immediatamente trasferito in una struttura che funziona molto bene.

      Il problema di come intervenire in realtà nacque, ma come a Napoli, già in altre città italiane, che non hanno questa tradizione, ce l’ hanno altre città. Io ho lavorato recentemente a Pisa, che è ancora molto meglio di Torino, per come è amministrata, cioè è veramente straordinaria, una qualità, altro che europea, è veramente a livello mondiale, come anche Modena. Il problema è creare una macchina amministrativa che è davvero oggetto di una volontà politica bipartisan. E una cosa che o nasce così o non nasce, in questo momento, in questo paese. Non so quanto stia andando in quella direzione, non mi sembra sia proprio quella la direzione in cui sta andando e certamente qualsiasi progetto culturale, scientifico, politico che debba affrontare una dimensione come quella dell’area metropolitana napoletana, senza un risanamento come il famoso risanamento di Napoli nel 1886, così quello che dovrebbe arrivare proprio adesso dall’interno diventa proprio solo un discorso di retorica urbana.

      Una delle cose che a Torino si sta facendo è creare delle scuole con l’aiuto delle grandi fondazioni bancarie, delle scuole per i grandi dirigenti amministrativi, delle scuole proprio all’ “ENA” francese. Questo nei sogni dei nostri forse il 20% dell’ “ENA” francese sarebbe tanto, perché in Italia non ci sono queste scuole che formano i tecnici di medio ed alto livello dell’amministrazioni e naturalmente queste scuole sono un primo passo in aeree come Torino, sono un passo che rafforza una struttura. In aeree come Napoli potrebbero essere un primo segnale vero di andare in una direzione diversa.

      C’è stato a Torino il congresso mondiale degli architetti e queste tematiche del ruolo rispetto all’etica della responsabilità è stato posto al centro della discussione partendo dal CNA italiano, cosa sorprendente, però è stato fatto. Quanto poi questo sia praticato, cioè quanto poi questo diventi una forma organizzativa, che indubbiamente se si realizzasse avrebbe un suo ruolo non da poco, ciò è in dubbio. Che in una situazione come quella che si è creata a Napoli, ma come anche in altre città d’Italia, per rompere dei monopoli, come sono quelli che si sono determinati o degli oligopoli, l’organizzazione delle professioni da un lato, e purtroppo dico purtroppo, perché le politiche organizzative stanno davvero devastando il mondo già in crisi, come quello dell’università e della ricerca, dall’altro comunque costruirebbe un minimo di borghesia alleata nel volere una gestione del bene pubblico. Diversamente si può tentare con gli organi professionali, non solo gli architetti, ma gli ingegneri, gli avvocati che sono coinvolti nelle pratiche edilizie, più degli architetti. Ripartire dall’organizzazione delle professioni può essere una strada, ripartire dall’università è sicuramente una strada, anche perché l’università conoscerà nel bene e nel male, un cambio generazionale fortissimo nell’arco dei prossimi 5-7 anni. L’università cambia più del 50% dei suoi professori, se non si colgono queste occasioni per trasformare un tran tran di numerosi decenni, dopo non so quando si ripresenterà una occasione come questa, Certo senza un idea di legalità, mi sembra fondamentale che non possono essere né gli Ordini, né l’università a garantire ed è difficile che questo riesca ad intaccare un processo sociale in cui la legalità è un bene così raro.
      Su questo bisognerebbe attivare forme sociali che sono diverse, quindi prima ancora che le politiche. Io ho paura che in questa fase storica italiana la società civile rappresenti ancora proprio lo specchio della sua classe politica, quindi sperare da li delle cose è un pò difficile.

      Un esempio può essere quello che evoca la Moratti a Milano, che non è nient’ altro che il modello vero di Barcellona.
      Barcellona ha utilizzato un’Olimpiade, non solo per fare politica urbana e non solo come ciclo antagonista di una crisi economica sociale, oltre che industriale, l’ ha utilizzata proprio per far crescere una classe dirigente mondiale e lo ha fatto in tutti i settori. Non aveva imprese edilizie, neanche nazionali, ad oggi è una delle più importanti del mondo ed è catalana. Aveva dei bravi architetti, ma non erano mai usciti dai confini locali. Aveva delle buone scuole, oggi sono tra le più importanti. Il Politecnico di Catalunja è uno dei più apprezzati a livello mondiale e così via. Allora non c’è dubbio che le grandi occasioni come sono oggi le Olimpiadi, le Esposizioni Universali possano essere davvero utilizzati e fare massa critica e rilanciare una borghesia imprenditoriale, professionale ed intellettuale, che viaggia per conto proprio, che non fa mai capitale sociale, non crea mai un progetto. Questo secondo me è la vera scommessa 2011-Torino, 2015-Milano, che certamente se parte non può riguardare solo Torino e Milano, come se la stanno raccontando oggi tra queste due città o anche coinvolgendo Roma. Ma Roma in questo momento è in una situazione ancora peggiore, se posso dire. Per alcuni aspetti deve avere un aspirazione nazionale, quanto questa cosa sia possibile, essendo, come a Torino, l’esperienza delle Olimpiadi ha visto crescere tutti, fuorché per esempio gli imprenditori edili, che hanno avuto un’occasione straordinaria, per reinventare, riorganizzare e rinvestire. Hanno capitalizzato quanto altri, ma non hanno reinvestito in un’impresa in grado di competere con quelle cinesi o con quelle francesi che sono quelle in testa a tutte.

      Hanno fatto delle buone imprese, sono delle buone imprese, ma rimangono di scala nazionale, il problema vero e come s’innesta questo meccanismo virtuoso, se non con il consenso dei gruppi dirigenti esistenti, cioè proprio un fatto di convergenza che a Torino c’è stata tra il ‘95 ed il ’96 dove si è creato un capitale sociale, che convergeva in quella che poi ha compreso anche la nuova classe dirigente di Fiat e l’esito lo si vede nella città che è anche fisicamente.

      Sull’esperienza del Giornale dell’Architettura è veramente stata una ribellione al fatto che le riviste di architettura in Italia fossero diventate ormai neanche più di tendenza, come lo sono state nella loro tradizione migliore, ma proprio di qualcosa di qualcuno e poi si occupavano sempre di più degli aspetti formali o degli aspetti progettuali, in senso molto riduttivo. La ribellione ha portato alla nascita di un prodotto molto complesso, perché adesso sta diventando veramente una macchina da guerra e in cui la cosa è completamente ribaltata.
      Il progetto, come si intende nelle altre riviste, occupa le due pagine centrali del giornale, ma tutto il resto si occupa di tutti gli aspetti dell’architettura. Poi è cresciuto con degli inserti e delle immagini e questo fa parte di una linea di crescita. Il problema vero è che in questo modo incontra l’opinione pubblica, cioè a differenza di quanto capita alle riviste di architettura, incontra l’opinione pubblica. Non dico che la forma, perché sarei troppo presuntuoso, però è in dubbio che intercettiamo molto di più, che gli altri organi e in questo senso per quello che si diceva prima su Napoli, noi siamo ben contenti di dare spazio e visibilità, nel senso che il Giornale dell’Architettura ha una sua logica di fondo che è quella di rendere visibili le trasformazioni nei diversi luoghi del mondo. In Italia in maniera privilegiata, con l’attenzione a mettere in luce quello che sta capitando e quello che capiterà; cioè non tanto per fare bilanci, che non appartiene allo spirito del giornale, quanto favorire modi e formazioni che riguardano le cose in atto e quelle che si trasformeranno.

      E’ logica difficile da mantenere perché bisogna avere tutti i canali, perché quando il giornale cresce diventa difficile tenere sotto controllo una quantità di informazioni così diversificate per settori, le rubriche del giornale sono molto diverse. Però io credo, che come abbiamo fatto questa cosa su Napoli, continueremo ad osservare e dare spazio alle realtà territoriali, anzi è uno degli impegni più urgenti perché la crisi della dimensione urbana è un fatto mondiale. L’omologazione che ciò che sta producendo è una delle più negative è quasi come la fine della bio-diversità, si accompagnano questi due processi e noi dobbiamo cercare, per quel pochissimo che possiamo, di contrastarlo.

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